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12Mar

Opportunismo

A fine inverno, sia pur avaro di precipitazioni, molte strade sterrate intorno ai 1200m sono ancora parzialmente innevate; affrontarle in mountain bike vuol dire dover pedalare anche in discesa, con i rapporti minimi e la prontezza a saltar giù ogni qual volta la ruota anteriore affonda troppo…
Ma ne è valsa la pena… A pochi minuti dalla partenza il piacevole incontro con una coppia di amici ed i tre cani di lei, fino ad ora solo virtuali e finalmente conosciuti di persona; poi via verso una zona piuttosto isolata, con la speranza di trovare qualche palco di cervo visto il periodo propizio e la disillusione di fare foto a qualche selvatico a causa dell’orario avanzato e della giornata comunque calda.

Avvicinarsi alla mèta ha richiesto il doppio della fatica rispetto a farlo a piedi, ma per fortuna la metà del tempo. Posata la bicicletta una coppia di aquile mi da il benvenuto alta nel cielo; ma sono due caprioli a cogliermi di sorpresa a pochi metri dal sentiero con una fuga agile e breve; il maschio ha ancora il velluto…

Poi mentre tolgo uno strato di vestiario, ecco muoversi qualcosa di più grosso; un cervo in pieno giorno che attraversa il pendio sopra di me e scompare in un boschetto di betulle; è giovane ed ha ancora il palco che tra poco perderà; trofeo di poche pretese ma resta un bell’avvistamento, raro in piena luce fuori dal periodo degli amori; foto intera in copertina.

Visto che il telefono è rimasto in auto e non so che ora sia, il sole mi dice che il tramonto è vicino, ritorno in bicicletta, di palchi a terra neanche l’ombra. Dove prima si scendeva pedalando ora si sale spingendo; la neve non regge più il peso e si sprofonda un po’ di più…
Nei brevi tratti pedalabili i giochi si invertono; anni fa mi era capitato di veder ripercorsa la mia traccia degli sci da fondo da un grosso canide, probabilmente il lupo: il suo opportunismo sfruttava la neve battuta in modo da non affondare e non faticare.
Stavolta ho fatto lo stesso con le sue tracce, belle evidenti ed in fila, perfette per essere sfruttate dalle gomme della mountain bike ed evitare le zone dove gli accumuli frenavano la spinta. E ad un tratto ecco la conferma; nei pressi di un bivio qualcosa che all’andata non c’era; l’avrei vista sicuramente…

Dimensione, presenza di peli e quantità non lasciano molti dubbi; le tracce erano quindi fresche, così come gli escrementi; la strada non ancora percorribile dai mezzi a motore probabilmente lo lascia tranquillo e indisturbato a muoversi in pieno giorno…Io non ho visto lui, ma penso che lui abbia visto me; chissà quante volte è già successo!

02Gen

Un inizio diverso

Erano anni che desideravo passare l’inizio dell’anno per mio conto, vicino alla wilderness, lontano da quegli stupidi atteggiamenti propiziatori che la massa adotta per ingraziarsi il Fato. Fossi io nel Fato, di fronte allo spreco di cibo e alla stupidità dei botti, di fronte al trionfo dei sensi e alla sconfitta dello Spirito, farei un’ecatombe, e la Terra ringrazierebbe.
Sono quindi salito ad un’alpe, in verità dotata di comfort come stufa e camino, e qualche catasta di legno di betulla tra cui scegliere i pezzi da bruciare; un paio di torrenti che scorrono a poche decine di metri forniscono l’acqua e il giusto sottofondo naturale ad un silenzio memorabile.

Il punto di questa esperienza è vedere come lavora la mente: ad una decina di chilometri da rifugi e baite abitate, con strade ghiacciate per arrivare, comodamente percorse dal lupo con il suo passo lungo e rettilineo. Il telefono che a tratti si collegava alla rete internet ma su cui non si può contare se non per un augurio ad un caro amico nel lontano Messico; costringono la mente a muoversi in modo più istintivo. Già il collegamento tra cervello e gambe deve funzionare; quello tra cervello e braccia mi ha piacevolmente stupito. Prima accendere la stufa con rametti recuperati a terra, poi dalla stufa passare al camino, fumo negli occhi e vestiti impregnati; candele per illuminare. Acqua presa dal torrente per cucinare una zuppa, vino nel thermos, sapeva un po’ di the… Null’altro che la vita che fanno i margari tutti i giorni, ma per un cittadino prestato alla montagna un po’ di valore c’è.

Un libro di Jim Harrison su un lettore di ebook, l’odiata tecnologia è un buon aiuto nello studio dell’inglese e nell’alleggerire lo zaino, dove restano inutilizzati il fornelletto in titanio e la tenda in gore-tex. Guarda caso “The Farmer” dove si racconta di un mio quasi coetaneo che ama cacciare e la vita agreste, alle prese con due donne che lo tormentano; alla festa per l’ultimo dell’anno quasi non si accorge dell’arrivo della mezzanotte, e così ho fatto io, sdraiato nel sacco a pelo sul tavolato in legno, ho salutato l’anno con un quarto d’ora di ritardo…
Notte fredda; pochi gradi sotto… Partito senza aver fatto colazione, Nick Chevotarevich approverebbe, riesco a sorprendere un cervo maschio nella ben augurante mattina del primo giorno di gennaio; per lui non cambia nulla, si nasconde tra le betulle. Qualche camoscio in alto e il sole che dipinge di rosa le cime innevate. Leggo il libro del bivacco, emozioni vere mischiate a chi da verbo all’ebbrezza, poi un po’ di pulizie per non togliere le stesse emozioni ai prossimi passeggeri e via verso il ritorno… Inverno caldo ed avaro di avvistamenti, qualche lucherino, corvi, tre caprioli e le chiassose ghiandaie. Pausa e lunga chiacchierata al più vicino rifugio con gli amici gestori e ritorno col buio, Orione è lì davanti ad indicare la direzione in mezzo alla neve; in girum imus nocte et consumimur igni

23Ott

Ombre

Il passo era quello di una fuga, gli portava alla memoria quella che aveva dovuto affrontare dopo la sconfitta. La sua storia di solitario ebbe inizio quando il tentativo di uccidere il capobranco fallì, e si considerava fortunato ad essere ancora vivo. Ora fuggendo da un cinghiale troppo grosso e cattivo per lui, si chiedeva se allora avesse fatto la scelta giusta; non era stato facile negli ultimi anni fare tutto da solo, i denti ormai erano consumati e le ossa dolevano, ma non c’era stata alternativa; allora l’attaccamento alla vita era stato più forte.
Undici anni di caccia erano tanti e aspettava l’estate per qualche facile preda domestica.
Aveva scelto una valle dove stare; valle ricca di prede e povera di uomini, ma quello era il problema minore. Ogni tanto in primavera passava un suo simile, maschio o femmina che fosse, gli avvertimenti che di tanto in tanto lasciava in bella vista, sarebbe meglio dire in bell’odore, li tenevano per ora distanti. Fino ad oggi i reietti non avevano portato fastidi; anche loro in fuga da qualcosa, i più fortunati avrebbero trovato una compagna con la stessa sorte e stabilito un nuovo branco.

La diaspora era iniziata da quando la persecuzione era diminuita; gli uomini non abitavano più le valli, scendevano in pianura a far funzionare le macchine e il bosco riprendeva l’antico possesso. Cervi, cinghiali e caprioli erano aumentati e grazie alla loro carne lui e i suoi fratelli avevano ripercorso le montagne fino alle Alpi e oltre…
La fortuna di una compagna non l’aveva cercata; che poi parlare di fortuna era un azzardo, e lui quando giocava di solito vinceva. Il cinghiale era però troppo arrabbiato e mettere al trotto le quattro zampe non era stato un ordine ma un istinto. Ne erano passate di femmine, ma a naso non gli andavano e a lui il naso diceva tutto; ne presagiva il futuro e preferiva la solitudine.

Aveva imparato a decifrare un sacco di cose con il naso; le tracce degli ungulati erano fin troppo facili; l’odore dell’uomo lo nauseava; ma la cosa più bella era stata leggere la chimica degli alberi. Un alfabeto di odori che gli permetteva di capirli fino al midollo; dei suoi simili forse nessuno aveva sviluppato quel vocabolario, ma lui si. E gli alberi gli parlavano; erano piuttosto lenti e arcaici, ma in loro aveva trovato compagnia. Ed era utile una compagnia ad essere sempre soli e temuti… Ma da lui avevano da temere solo una grattatina sulla corteccia o uno schizzo di pipì per marcare il territorio; niente di più.

Da loro aveva ricevuto molto: Conoscenza. Gli alberi una volta avevano una rete di comunicazione planetaria; ora non più, l’asfalto delle autostrade aveva separato le poche foreste ancora in piedi; ma gli esemplari più vecchi ricordavano tutto… Sapevano anche i loro fratelli caduti. Per quelli che erano diventati carta conoscevano ogni lettera scritta a mano o stampata; parole, frasi, aveva imparato grazie a loro a conoscere il suo nemico. Ora gli uomini scrivevano con la luce e non era così facile carpirne i segreti… Quando gli alberi servivano a costruire le case degli uomini, si conoscevano a vicenda, il legno ha memoria, anche se non ha più radici e linfa. Bisogna conoscere il nemico per combatterlo o, come nel suo caso, per difendersi…
E gli alberi questo lo sapevano naturalmente, lui li aiutava a tenere sotto controllo cervi e caprioli che mangiavano i giovani getti e non lasciavano ricrescere il bosco. Ne sarebbero serviti altri come lui, da solo non poteva fare molto, ma erano proprio gli alberi ad avergli raccontato che c’erano uomini che sceglievano la Conoscenza e non la discendenza; i seguaci del santo all’ombra del vecchio platano, lui era un po’ come loro, ma uccideva per vivere. Come loro però partecipava della vita della propria specie; nessuno era un’isola ma un continente, ogni morto lo diminuiva, fosse fratello o antagonista, sua vittima o vittima del nemico (cit.).
Querce, faggi, castagni, abeti, betulle e tutti gli altri erano degli ottimi alleati, anche se ora non riuscivano più ad avere novità da fuori valle; qualche uccello migratore a volte portava racconti dal deserto dell’Africa, ma per lo più raccontavano di guerra e devastazione o fumo nero che si levava dai deserti dei loro antichissimi avi. Sapevano che l’uomo non era cambiato molto, gli alberi dicevano che dalla notte dei tempi a muoverli era sempre l’egoismo, la voglia di prevalere sul proprio simile, di arricchirsi depredando la natura. I popoli vivevano nel passato e nel presente ma non pensavano al futuro, e i secoli li avevano fatti peggiorare…

Una volta però c’era chi dava bellezza al mondo, cercavano di arrivare alla perfezione della natura, dei reietti anche loro; il legno era diventato musica, violini, pianoforti, contrabbassi… Quella cosa che si sentiva le sere d’estate e gli faceva pensare una nostalgia… Ogni tanto chiedeva agli alberi di suonare e, con la complicità della pioggia, di un ruscello o delle nocciole che cadevano, le sinfonie accompagnavano il suo tempo.
Erano gli alberi ad avergli ricordato la sua storia ancestrale presso gli umani; la sua antica madre che aveva nutrito il re e il fratello, il poeta che l’aveva messa all’inferno come simbolo dell’avarizia e della cupidigia, il santo che era amico, la religione che lo aveva reso un demonio agli occhi dei poveracci affamati come lui facendo nefandezze in suo nome, le persecuzioni da parte degli uomini, la sua nascita e i primi tempi quando non vedeva ancora, preso amorevolmente tra le fauci di sua madre… Lui aveva memoria solo dei giochi con i fratelli, e il padre che non gli aveva lasciato un futuro nel branco. La madre era stata uccisa da un codardo boccone avvelenato.

Era fuggita via per non ammorbare la tana con il veleno che aveva in corpo. Insieme a lei erano morte due aquile e sei corvi dopo aver mangiato la sua carne, e non era finita… L’estate ventura sarebbero state le vacche al pascolo a subire il danno della stricnina, e poi l’uomo che l’aveva messa, magari, nel formaggio sulla sua tavola.

Un abete bianco gli aveva detto che lui era strano; aveva conosciuto altri della sua specie, ma nessuno era così curioso; gli aveva parlato di un gabbiano come lui. Singolare pensava; i gabbiani erano come lui, le cornacchie, i nibbi e i gufi reali a razziare la spazzatura e i ratti nelle discariche vicino alla grande città, un mattino che era di passaggio, non a cercare la Conoscenza…E poi come aveva fatto un abete bianco a incontrare un gabbiano?
Ma i tempi del girovagare erano lontani, anche se il concetto di passato, presente e futuro era una cosa da umani. Gli alberi gli avevano spiegato che il tempo non è altro che un’illusione, si vive il qui ed ora, il prima e il dopo sono solo un’invenzione, la loro vita terrena in confronto alla sua era secolare, tra gli altri ci sono alberi che sembrano giovani, ma in realtà si sono solo rifatti le radici partendo da un fusto morente, sono vecchi di millenni e non lo sa nessun’altro…

Il fulmine non faceva differenze tra loro e lui…
Certo, c’era una legge di causa effetto, come c’era una legge che faceva cadere i ricci di castagno e le foglie d’autunno, ma a lui non importava molto; era un predatore opportunista. Sapeva che se avesse colpito troppi domestici il padrone lo avrebbe perseguitato; era stato fortunato ad averne trovato uno così… Erano anni che gli faceva sparire uno o due vitelli a stagione; appena nati, neanche il tempo di alzarsi sulle zampe e via… Ma il padrone era un uomo particolare, amava le sue vacche che mungeva ancora a mano e conosceva per nome, amava la montagna, e sapeva che lui era un’incognita di cui tenere conto insieme a tante altre. Non usava il fucile e tantomeno il veleno, era una persona intelligente. Ma alla fine ci perdeva, nessuno gli pagava il danno.

Ce ne erano altri che invece avevano il fucile pronto; o i bocconi avvelenati… Erano gli stessi che davano fuoco alle montagne per avere l’erba buona; ma il segreto per avere l’erba buona lui lo sapeva, era salire ai monti con le vacche appena andava via la neve, non gli incendi che danno l’erba abortiva. E sia lui che il padrone avrebbero perso i vitelli…
Uno dei pastori era stato punito dalla sorte però, il fulmine gli aveva portato via venti pecore…
Ma lui, potendo scegliere, non aveva mai amato la loro carne; aveva sempre quell’odore di uomo che non sopportava. I vitelli e gli agnelli appena nati no, quelli erano profumati di latte; l’odore del sangue fresco spaventava le vacche che si tenevano lontane muggendo, ma appena nati, l’odore del sangue del parto le confondeva e lui poteva agire indisturbato.
In altre occasioni preferiva tenersi lontano spaventato da certi cani da pastore, arrivavano anche loro dall’Appennino ma quelli non erano facili da aggirare e i collari chiodati non lo lasciavano attaccare per primo.
Il legame con i cani non c’era. Semplicemente erano un’altra cosa rispetto a lui, antichi geni in comune, ma adesso non si comprendevano quasi mai. Raramente capitava che si conoscessero, anche in senso biblico; la specie si imbastardiva. Lui disdegnava: era orgoglioso della sua stirpe. Le volte che aveva portato via colpe per i danni fatti dai cani diventati selvatici non si contavano; non li apprezzava, avevano avuto bisogno di un padrone mentre lui il padrone lo detestava e quelli inselvatichiti avevano perso l’istinto di lasciar vivere gli animali che non servivano nel qui ed ora.

Avevano preso dagli uomini, non avevano stile. Uccidevano in branco mordendo le terga; lui lo aveva fatto con i fratelli alla sua prima cerva e ricordava ancora i morsi del padre per punirli. Bisogna essere fulminei ed attaccare al collo, la preda si spaventa il giusto e non prende il sapore amaro della paura.
Ne aveva fatto fuori uno, la sua colpa uccidere senza ritegno qualsiasi nidiata di coturnici o fagiani di monte; i padroni lo cercavano ancora adesso…

Si avvicinava l’ora della sua di morte. Non la temeva, come fai a temere una cosa che ti ha tenuto in vita per tanto. Gli alberi gli avevano spiegato che non temevano il fulmine: erano fatti della stessa cosa, il fulmine era onda e loro particelle, a volte il contrario; un discorso complesso che solo i monaci dell’est avevano capito meditando… Gli altri ci sarebbero arrivati prima o poi, con i loro calcoli, ma avrebbero provato a trasformare tutto in tecnologia e usarla per distruggere o colonizzare altri mondi visto che il loro era condannato.
Sarebbe stato infine anche lui un regalo per i corvi, suoi seguaci in tante occasioni.
Ma aveva fame, il sole stava calando e lui dalle rocce in cui si era fermato a controllare il pendio, si alzò; gli piaceva al tramonto accompagnare le ombre a coprire il mondo rendendosi ombra lui stesso.

 
25Giu

Intervista a George Schaller di John G.Mitchell – National Geographic Italia – Ottobre 2006

Quando ha cominciato a interessarsi al mondo naturale?

Da bambino catturavo le lucertole  e serpenti e tenevo degli opossum; mi piaceva vagare per boschi e osservare gli uccelli. Ma è stato soltanto quando sono entrato all’Università dell’Alaska, nei primi anni Cinquanta, che ho scoperto come il passatempo di un ragazzino potesse divenire la professione rispettabile di un uomo.

Quali studi ha seguito all’Università dell’Alaska?

All’inizio studiavo gestione faunistica, finché ho capito che consisteva nell’allevare animali per farli uccidere dai cacciatori; cosa che non rientrava nei miei interessi. In seguito mi sono dedicato alla biologia sul campo, una materia che mi dava grandi soddisfazioni, nella quale mi sono laureato. Nel 1966 ho avuto la fortuna di essere assunto dalla New York Zoological Society, oggi Wildlife Conservation Society. Sono stati loro a finanziare il mio progetto sui gorilla in Africa, e negli anni hanno rappresentato un importante punto di riferimento.

A lei è riconosciuto un ruolo fondamentale nell’istituzione di alcune delle più grandi riserve al mondo, tra quelle del bacino del Rio delle Amazzoni, del deserto del Gobi, del Myanmar, del Tibet. In quale misura i rispettivi governi hanno cooperato con lei nell’istituzione di queste aree protette?

Innanzitutto bisogna chiarire che, in qualità di ospite di un paese straniero , non si istituisce nulla da soli. La creazione di un’area protetta dipende esclusivamente dal governo in questione, e tutto quello che si può fare, tutto quello che io faccio. È raccogliere informazioni sulla fauna e sulla flora selvatica, sulla distribuzione della popolazione umana, e avanzare delle proposte. Se queste sono ragionevoli, la maggior parte dei governi si dimostra disponibile ad ascoltarle. Se la proposta è realizzabile e se è coerente con la loro politica, si mettono all’opera e la portano a termine. Il governo cinese, ad esempio, ha lavorato intensamente in Tibet nel corso degli ultimi 15 anni. Lì rimangono ancora molte aree relativamente incontaminate, con scarsa densità di popolazione, che possono essere tutelate, e attualmente circa un terzo del Tibet è ufficialmente protetto. Per qualche ragione il governo cinese non pubblicizza queste iniziative, ma la Riserva di Chang Tang ha un’estensione di circa 310.800 chilometri quadrati, e si sta lavorando per tutelare altre aree. Potrebbe raggiungere 647.500 chilometri quadrati.

Perché abbiamo bisogno di istituire parchi e riserve?

E’ essenziale che ogni paese mantenga intatta una parte del suo patrimonio naturale come testimonianza per il futuro, come punto di riferimento per valutare i mutamenti ambientali, in modo che la gente possa conoscere lo splendore del passato, prima che iniziasse il degrado dell’ambiente. Per ripristinare un habitat naturale occorre sapere com’era originariamente. Queste aree protette, questi luoghi incontaminati, sono anche riserve genetiche, dove sopravvivono piante e animali altrove estinti. Possono rivelarsi un patrimonio inestimabile per la specie umana come fonte di cibo e farmaci. Se distruggiamo anche questi luoghi, non potremo recuperarli mai più,e qualcosa di inestimabile potrebbe andar perso per sempre.

In quali altre zone del mondo ha contribuito a stimolare l’azione dei governi nel tutelare la natura?

Nell’altopiano del Pamir, in Pakistan. Ho compiuto un’ispezione in loco nel 1974 e ho scritto una relazione, che sono riuscito a far pervenire al primo ministro attraverso alcune conoscenze. Avevo delle proposte per una riserva, e mi fu assicurato che l’avrebbero istituita. In seguito, lungo il confine, di nuovo dietro mia sollecitazione, la Cina ne fondò un’altra. A quei tempi, negli anni’80 e ’90, il Tagikistan e l’Afghanistan avevano vietato la presenza di cittadini americani sul loro territorio. Ora non esiste più alcun impedimento, per cui negli ultimi anni sto lavorando sul posto; stiamo cercando di creare un accordo tra questi quattro paesi per istituire una grande riserva transnazionale.

Ci parli dell’Iran.Il Governo è interessato alla salvaguardia dei pochi esemplari di ghepardo sopravvissuti in Asia?

Si, si è dimostrato molto sensibile. Vado in Iran con regolarità dal 2000, e il governo ci appoggia fortemente. Esistono soltanto 50 o 60 esemplari di ghepardo asiatico. Le tigri e i leoni sono ormai estinti nel Paese, ed è quindi comprensibile che non vogliano perdere anche i ghepardi.

Lei è stato in Iran durante due settimane di grande tensione politica con gli Stati Uniti. Non ha interferito con il suo lavoro?

No, assolutamente. La tensione politica non ha nulla a che fare con il popolo iraniano; è gente incredibilmente amichevole. E’ un piacere trovarsi in un paese come quello, gli iraniani hanno una cultura meravigliosa,e la volontà di fare qualcosa per salvaguardare la propria ricchezza naturale.

Si sente spesso parlare di “fauna carismatica”: elefanti, leoni, tigri, grizzly, panda giganti ed altri grandi animali che catturano l’interesse dell’opinione pubblica. Trova che questo termine sia diventato un cliché?

Mi piace osservare gli animali grandi, belli e interessanti, ma non basta. Non puoi semplicemente sederti e stare a guardarli. Hai l’obbligo morale di contribuire a proteggerli. Il vantaggio di occuparsi di questi animali consiste nel fatto che attirano l’attenzione del pubblico. E’ più facile ottenere un aiuto economico per studiare il panda che per studiare la sanguisuga. Ma questo non significa necessariamente che il panda sia più importante della sanguisuga  dal punto di vista biologico. Significa semplicemente che se ottieni dei fondi per salvaguardare un animale carismatico di grossa taglia , puoi automaticamente estendere la protezione alle sanguisughe, alle formiche, e a tutte le specie presenti nell’area. Noi scienziati parliamo spesso di biodiversità, ma è un termine astratto. Non proteggiamo il panda per via della biodiversità; lo facciamo perché stimola il nostro sentimento. La componente affettiva riveste un’importanza enorme nella tutela del patrimonio naturale.

Lei è stato uno dei primi a studiare il gorilla di montagna, e ha rilevato che lungi dall’essere una bestia aggressiva, è in realtà una creatura mite e molto intelligente. Ha scritto: “Nessuno può rimanere immutato dopo aver guardato un gorilla negli occhi…Capiamo che è ancora vivo dentro di noi”. Cosa rammenta della prima volta che ha guardato un gorilla negli occhi?

Il primo contatto è stato troppo ravvicinato. Ero rapito e impaurito allo stesso tempo, perché i gorilla, come la maggior parte degli animali di grossa taglia, sono individui con una propria personalità, e dunque non ero sicuro della reazione che avrebbe avuto. Alcuni hanno un carattere impulsivo , altri sono più placidi. Ma questa femmina di gorilla aveva occhi molto gentili, e assunse un comportamento tipico per la sua specie, quando è intimorita e vuole evitare un contatto visivo prolungato: lentamente, girò il capo dall’altro lato. Ma i gorilla hanno anche il merito di aver contribuito a dare un’identità al Rwanda. Questo paese sovrappopolato, estremamente povero, nonostante la sua storia di guerre civili e genocidi, ha eciso di proteggere e salvaguardare i suoi gorilla. Per un paese in simili condizioni, si tratta di un’iniziativa straordinaria.

Quale politica auspica nei confronti delle persone che vivono lungo i confini delle aree protette e che chiedono di poterli varcare per cercare generi di sostentamento?

E’ ovvio che vi sono luoghi in cui l’attività umana deve essere vietata, nella maniera più assoluta. Magari oggi la popolazione è molto esigua, ma tra 20 anni sarà cresciuta del doppio, e il degrado ambientale sarà inevitabile. Trovo che sia giusto cerca e delle modalità per cui la gente del luogo possa fruire – per quanto limitatamente – delle risorse naturali presenti sul proprio territorio. In un parco del Nepal, alcune compagnie straniere avevano costruito degli hotel, saturando l’economia della zona senza alcun beneficio per la gente del luogo. Per questo motivo alcune comunità decisero di riconvertire i loro campi coltivati in terreno incolto, coperto di erba alta e cespugli. I rinoceronti, le tigri e gli altri animali cominciarono a uscire dal parco per frequentare questi vecchi campi, dove la gente del luogo organizzò  delle strutture di accoglienza per i turisti. Realizzarono guadagni molto superiori di quelli che avrebbero ottenuto continuando a coltivare la terra. Ma purtroppo si tratta di un caso piuttosto raro. L’ecoturismo può sembrare un’ottima idea, ma basta guardare le statistiche per rendersi conto che solo una minima parte dei soldi spesi dai turisti va a beneficio della gente del luogo. Sono le compagnie straniere, i titolari di hotel stranieri, il personale straniero, ad arricchirsi.

Tra poche settimane partirà per l’Alaska  per ripercorrere il cammino che lei stesso e gli ambientalisti Olaus e Mardy Murie avete percorso mezzo secolo fa, quando avete iniziato a pubblicizzare il progetto dell’Arctic National Wildlife Refuge. Quali ricordi conserva di quell’avventura?

Era la magnifica estate del 1956. Trascorremmo la maggior parte del tempo sul versante meridionale della catena di Brooks. Oltre alle ricerche scientifiche, i Murie erano attenti a porre l’accento su quelli che Olaus chiamava”i valori preziosi e intangibili”. Rimasi molto colpito, perché rivedevo questo rinomato biologo che si approssimava ai 70 anni iniziare la giornata con un senso di gioia, di avventura, di curiosità. Ricordo che una volta, mentre camminavamo nella tundra, trovammo un cumulo di escrementi di orso. Lui ne prese una certa quantità in mano e con l’altra iniziò a frugarla per vedere cosa avesse mangiato l’orso. E’ stato un episodio che mi ha segnato, data anche la mia giovane età. Per quanto riguarda il mio ruolo nell’istituzione della grande Riserva artica (ANWR), ho fatto poco più che scrivere alcune lettere. Il ruolo fondamentale lo ha avuto la gente del luogo.

Ora l’amministrazione Bush e il senatore Stevens stanno cercando una via legale per l’apertura della pianura costiera della riserva ai sondaggi petroliferi. Cosa ne pensa?

E’ la dimostrazione che, se davvero ti sta a cuore qualcosa, non devi mai abbassare la guardia. Nulla è mai davvero al sicuro. Circa il 95per cento del North Slope dell’Alaska è già stato dato in concessione alle compagnie petrolifere. Non potremmo preservare almeno i territori ancora intatti? Che razza di gente siamo se non lo facciamo? Le compagnie petrolifere vogliono varcare i confini della Riserva, creando un precedente per estendere il loro sfruttamento. Se riescono ad accedere alla Riserva in Alaska potranno entrare ovunque.

Dove crede che ci condurrà il riscaldamento globale?

Si potrebbe discutere all’infinito sulle responsabilità dei mutamenti climatici, se siano effettivamente naturali o determinati dall’uomo. Ma il punto è che il clima sta cambiando molto rapidamente, e gli scienziati sono concordi nel ritenere che la causa sia l’utilizzo dei combustibili fossili. Se si aumentasse il rendimento delle automobili a 17 km per litro –cosa assolutamente possibile – e se si abolissero i sussidi per l’acquisto di auto di grossa cilindrata, risparmieremmo ogni anno una quantità di petrolio dieci volte superiore a quella che si potrebbe ricavare dallo sfruttamento dei giacimenti del parco dell’Alaska. La cosa bizzarra è che dovrebbe esserci gente istruita al rispetto; ma dov’è? Le nostre scuole e università hanno fallito nell’educare le coscienze alla consapevolezza e alla tutela di ciò che ci circonda. Anche gli ambientalisti hanno fallito: alcuni di essi non fanno che parlare di “sviluppo sostenibile”.

Cos’ha contro il concetto di sviluppo sostenibile, l’utilizzo di risorse naturali nei parchi e nelle riserve senza esaurirle?

Ogni territorio possiede dei tesori naturali che dovrebbero essere considerati come tali e trattati adeguatamente, ed è il compito delle organizzazioni ambientaliste combattere per la tutela di questi luoghi speciali. Una parte consistente di queste organizzazioni ha perso di vista il suo fine, che non consiste nell’alleviare la povertà o nel promuovere lo sviluppo sostenibile. Il loro scopo è salvaguardare i tesori naturali. Cosa dovremmo fare? Invitare i senzatetto a prendere alloggio al Metropolitan Museum o nel Taj Mahal? Si tratta di tesori culturali, e il discorso vale per la piana del Serengeti, per l’ANWR, per i vulcani di Virunga, che ospitano i gorilla di montagna. Alcune organizzazioni ambientaliste sostengono che alla gente del luogo dovrebbe essere riconosciuto il diritto di gestire le proprie riserve e farne l’uso che vuole. La trovo un’assurdità bella e buona! La cosa davvero preoccupante è che non pensiamo più alla natura. Parliamo delle risorse naturali come se ogni cosa al mondo avesse un prezzo. Ma non si possono comprare i valori spirituali al supermercato. Ciò che eleva lo spirito – una foresta secolare, le acque limpide di un fiume, il volo dell’aquila. L’ululato del lupo, quiete e spazi senza automobili – sono i valori intangibili. Sono questi i valori che la gente cerca veramente, ciò di cui abbiamo davvero bisogno.

26Apr

John Steinbeck – estratto da “La valle dell’Eden”

Qualche volta una specie di gloria illumina lo spirito di un uomo. Succede quasi a tutti. Lo si può sentir venire su o prepararsi come il detonatore che sta per dar fuoco alla dinamite. E’ un sentimento nello stomaco, un piacere dei nervi, degli avambracci. La pelle gusta l’aria e ogni respiro profondo è dolce. I suoi inizi danno il piacere di un bello sbadiglio aperto; balena nel cervello e tutto il mondo se ne accende davanti agli occhi. Uno può aver vissuto tutta la vita nel grigiore, e la sua terra e i suoi alberi possono essere cupi e bui. Gli avvenimenti, anche quelli importanti, possono esserglisi affollati intorno pallidi e senza volto. E poi la gloria, e un canto di grillo gli accarezza le orecchie, l’odore della terra gli sale osannante alle narici, e la luce variegata sotto un albero gli allieta gli occhi. Allora l’uomo si riversa all’esterno, come un torrente, eppure non sminuisce se stesso. E io credo che l’importanza di un uomo nel mondo possa essere misurata dalla qualità e dal numero delle sue glorie. E’ qualcosa di solitario ma ci mette in rapporto con il mondo. E’ madre di ogni creatività, e separa ogni uomo dagli altri.
Non so come sarà negli anni che verranno. Nel mondo si stanno verificando cambiamenti mostruosi, ci sono forze che plasmano un futuro di cui non conosciamo il volto. Alcune di queste forze ci sembrano cattive, forse non in se stesse, ma perché la loro tendenza è di eliminare altre cose che per noi sono buone. E’vero che due uomini possono alzare una pietra più grossa che non un solo uomo. Un gruppo di persone può costruire un’automobile più presto e meglio di un uomo solo, e il pane che esce da un grosso stabilimento è più uniforme e a buon mercato. Quando il nostro cibo, e il vestiario e le case dove abitiamo nascono nella complicazione della produzione di massa, un tale metodo è destinato a inserirsi nel nostro modo di pensare e a eliminare ogni altro. Nella nostra epoca la produzione di massa o collettiva ha fatto il suo ingresso nel regno dell’economia, della politica, perfino della religione, e alcune nazioni hanno sostituito l’idea della collettività a quella di Dio. Questo è il pericolo, nella mia epoca. C’è una grande tensione nel mondo, verso un punto di rottura, e gli uomini sono infelici e confusi.
In un’epoca simile, mi sembra naturale e buono pormi queste domande. In che cosa credo? Per che cosa e contro che cosa devo combattere?
La nostra specie è la sola specie creativa, e ha un solo strumento creativo, la mente e lo spirito individuale dell’uomo. Niente è mai stato creato da due uomini. Non ci sono buone collaborazioni, sia in musica sia in arte, o in poesia, in matematica, in filosofia. Una volta che abbia avuto luogo il miracolo della creazione, il gruppo può edificare ed estendere, ma il gruppo non inventa mai nulla. La cosa preziosa giace nello spirito individuale dell’uomo.
E ora le forze spiegate intorno al concetto di gruppo hanno dichiarato una guerra di sterminazione alla cosa preziosa, allo spirito dell’uomo. Per mezzo di diffamazioni, affamandolo, con le repressioni, la direzione forzata e i possenti colpi di martello del condizionamento, lo spirito libero e vagabondo è costantemente inseguito, impastoiato, attutito, narcotizzato. La nostra specie sembra essersi messa sulla triste via del suicidio.
E io credo in questo: che lo spirito individuale liberamente esplorante sia la cosa più preziosa del mondo. E’ per questo che io vorrei combattere: la libertà dello spirito di prendere, senza costrizioni, la direzione che desidera. E contro questo io devo lottare; ogni idea, religione o governo che limita o distrugge l’individuo. Questo è ciò che sono e per questo io sono. Io posso capire perché un sistema costruito in base a un modello debba cercar di distruggere lo spirito libero, perché quello è una cosa che per sola forza di analisi può distruggere quel sistema stesso. Lo capisco benissimo, e mi ribello a questo e lotterò contro per difendere e conservare la sola cosa che ci differenzia dagli animali che non creano. Se la gloria può essere uccisa, allora siamo perduti.

29Mar

Walter Bonatti – estratto da Magia del Monte Bianco

Amo ricercare me stesso nelle cose, nelle mie azioni. Sono anche geloso della mia indipendenza spirituale, per questo non avevo voluto dividere queste giornate con alcuno, ma viverle nell’intimità delle mie emozioni, a contatto con una natura familiare e meravigliosa dalla quale sarei uscito come da un sogno. Felice di aver sognato. Passavano le ore. Inerte e alla deriva verso pensieri luminosi, mi ritrovavo più che mai immerso nel labirinto delle riflessioni, che mi portavano inevitabilmente verso la ricerca della mia verità. Perciò sentivo in me tutte le laceranti contraddizioni che sono nell’uomo, senza però riuscire ad approdare più in là dei nuovi contrasti che ne nascevano. Nel mio monologo ero comunque arrivato a dei punti fermi. Ero certo, per esempio, che nulla esiste sulla Terra che non sia di tutti, quindi anche mio. Sapevo che capire il bello significa possederlo. Potevo giurare che ci sono sempre delle porte da aprire in noi. Riconoscevo che le difficoltà non mettono alla prova la forza dell’uomo, ma la sua debolezza. Inoltre mi affascinava collocare l’esistenza della realtà soltanto nel riflesso del suo sogno. Ad altre difficili domande che mi ero fatto, e per alcune era rimasto aperto l’interrogativo, mi ero risposto che la vita, in definitiva, ha senso viverla con il massimo impegno, cercando di realizzare tutto quello che si ha dentro. Ero conscio che non avrei mai potuto privarmi di ciò che ritenevo giusto fare, pur con tutte le paure che ciò comporta. Capivo che molte mie idee sarebbero suonate per lo meno strane a un certo tipo di interlocutore, ma in tal caso il problema sarebbe stato suo. Sapevo ben radicati alcuni miei concetti e mi era sempre più chiaro che la mia stravaganza era forse preferibile a quella “saggezza” dei molti, laggiù, dove spesso la vita – incatenata dal consueto e regolata da tutte quelle pressioni che arrivano persino a trasformare l’arte e la fede in una merce – non è che una calma disperazione, un deserto di egoismo e di apatia. No, mi dicevo, non può essere bello un mondo dove le paure e gli entusiasmi spaventano i più, tesi come sono al risparmio di sé e dei propri sentimenti.

28Feb

Alan W. Watts – estratto da Natura Uomo Donna

In molte comunità cosiddette primitive, una parte dell’iniziazione tribale consiste nel trascorrere un lungo periodo da soli nella foresta o sulle montagne, un periodo in cui l’iniziando arriva a confrontarsi con la solitudine e con la non-umanità della natura, fino a scoprire chi o che cosa veramente egli è – una scoperta che gli sarebbe ben difficile fare rimanendo all’interno di una comunità che continuamente gli propone dei modelli riguardo a chi è o a chi dovrebbe essere. L’iniziando può arrivare a scoprire, ad esempio, che la solitudine è la paura nascosta di quello sconosciuto che è lui stesso, e che l’aspetto ostile della natura non è altro che la proiezione della sua stessa paura di uscire dai binari abituali e condizionati dei suoi sentimenti. Ci sono molte testimonianze che rivelano come chiunque passi attraverso la barriera della solitudine senta a un certo punto esplodere il suo isolamento individuale, per la sua stessa intensità, nel sentimento globale di identità con l’universo. Si potrà liquidare tutto ciò come “misticismo naturalistico” o “panteismo”, ma dovrebbe essere evidente che un sentimento di questo genere ha maggiore attinenza con un universo fatto di processi e di relazioni interdipendenti di quanta non ne abbia con un universo costituito da entità distinte e separate (…)

Un po’ per rispondere a chi mi chiede se non ho paura ad andare in montagna da solo…

Natura Uomo Donna – Alan W. Watts – Universale Economica Feltrinelli

22Feb

Le origini della meditazione – Gary Snyder

Nel libro “La Grana delle Cose” viene posta la domanda a Gary Snyder:

– Una volta hai parlato di una tua sensazione intuitiva che la caccia possa essere all’origine dello zazen e del samadhi.

La sua risposta: -Oggi capisco ancor più chiaramente di quando scrissi quelle cose che i nostri più antichi modi di guadagnarci da vivere , le nostre più antiche tradizioni di vita precedenti all’agricoltura, richiesero letteralmente migliaia di anni di grande attenzione e concentrazione, lunghissime ore di immobilità. Un antropologo, William Laughlin, ha scritto un bellissimo articolo sulla caccia come educazione per i bambini. Il primo problema che si pone è come mai i cacciatori primitivi non avessero strumenti migliori di quelli che avevano. L’arco degli indiani americani non tirava più di venti chili e sembrava un giocattolo. Facevano tante altre cose estremamente bene, costruivano case di 40 metri di diametro, grandi pali totemici, barche di ottima fattura. Perché allora sembrano presentare questa debolezza nella tecnologia della caccia? La risposta è semplice: non cacciavano con gli strumenti, cacciavano con la mente. Facevano cose che rendevano superflui gli strumenti: apprendevano il comportamento degli animali.

Per imparare il comportamento degli animali, bisogna diventare dei veri osservatori, bisogna penetrare nella mente degli animali. E’ per questo che nei riti e nelle cerimonie che si ritrovano in tutto il mondo fin dai tempi più antichi, la componente chiave della cerimonia è il mimo animale. Il mimo è l’espressione spontanea della capacità di identificarsi completamente con l’animale, sul piano fisico e psichico, dimostrando di conoscerne intimamente i modi di fare e le abitudini. Ancor più interessante: in una società di cacciatori-raccoglitori si apprende il paesaggio multidimensionalmente, come campo piuttosto che come linea retta. Noi americani ci spostiamo esclusivamente lungo le strade, lungo il percorso prestabilito fra un punto A e un punto B. Le cose che vogliamo ci appaiono tutte situate al termine di questo o quel percorso lineare. Questa tendenza era già presente nelle società neolitiche, in cui i villaggi erano collegati fra loro da linee. In una società in cui tutto proviene dal terreno, invece, il paesaggio è memorizzato con tutte le sue pieghe e le sue dimensioni: si sa che laggiù c’è l’asclepiade per fare la colla e lo spago, più oltre, di là dal colle, c’è il posto dove le antilopi vanno a bere… Questo significa percepire il mondo come campo. Tutto questo partecipa della qualità del samadhi.

Più precisamente,  certi tipi di caccia esigono che si penetri a fondo nel movimento-coscienza-mente-presenza degli animali. Come dicono gli indiani: “Caccia l’animale che viene da te”. Ho visto vecchi indiani arpionare il salmone sul fiume Columbia, in piedi  su un’asse gettata sopra una cascata scrosciante. Riuscivano a stare immobili per venti o trenta minuti stringendo la picca e poi di colpo, eccoli con un salmone in mano! Una pazienza così!

Sto solo cercando di riflettere su quelle che possono essere le radici biofisiche, evolutive della meditazione e della pratica spirituale. Ne sappiamo molto di più di quanto si pensi. Sappiamo che le pratiche del digiuno, della solitudine, dell’immobilità come parte dell’addestramento dello sciamano sono un dato universale. Tutte queste possibilità sono state senza dubbio sfruttate per decine di migliaia di anni, hanno fatto parte integrante dei processi di apprendimento.

 

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