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23Ott

Ombre

Il passo era quello di una fuga, gli portava alla memoria quella che aveva dovuto affrontare dopo la sconfitta. La sua storia di solitario ebbe inizio quando il tentativo di uccidere il capobranco fallì, e si considerava fortunato ad essere ancora vivo. Ora fuggendo da un cinghiale troppo grosso e cattivo per lui, si chiedeva se allora avesse fatto la scelta giusta; non era stato facile negli ultimi anni fare tutto da solo, i denti ormai erano consumati e le ossa dolevano, ma non c’era stata alternativa; allora l’attaccamento alla vita era stato più forte.
Undici anni di caccia erano tanti e aspettava l’estate per qualche facile preda domestica.
Aveva scelto una valle dove stare; valle ricca di prede e povera di uomini, ma quello era il problema minore. Ogni tanto in primavera passava un suo simile, maschio o femmina che fosse, gli avvertimenti che di tanto in tanto lasciava in bella vista, sarebbe meglio dire in bell’odore, li tenevano per ora distanti. Fino ad oggi i reietti non avevano portato fastidi; anche loro in fuga da qualcosa, i più fortunati avrebbero trovato una compagna con la stessa sorte e stabilito un nuovo branco.

La diaspora era iniziata da quando la persecuzione era diminuita; gli uomini non abitavano più le valli, scendevano in pianura a far funzionare le macchine e il bosco riprendeva l’antico possesso. Cervi, cinghiali e caprioli erano aumentati e grazie alla loro carne lui e i suoi fratelli avevano ripercorso le montagne fino alle Alpi e oltre…
La fortuna di una compagna non l’aveva cercata; che poi parlare di fortuna era un azzardo, e lui quando giocava di solito vinceva. Il cinghiale era però troppo arrabbiato e mettere al trotto le quattro zampe non era stato un ordine ma un istinto. Ne erano passate di femmine, ma a naso non gli andavano e a lui il naso diceva tutto; ne presagiva il futuro e preferiva la solitudine.

Aveva imparato a decifrare un sacco di cose con il naso; le tracce degli ungulati erano fin troppo facili; l’odore dell’uomo lo nauseava; ma la cosa più bella era stata leggere la chimica degli alberi. Un alfabeto di odori che gli permetteva di capirli fino al midollo; dei suoi simili forse nessuno aveva sviluppato quel vocabolario, ma lui si. E gli alberi gli parlavano; erano piuttosto lenti e arcaici, ma in loro aveva trovato compagnia. Ed era utile una compagnia ad essere sempre soli e temuti… Ma da lui avevano da temere solo una grattatina sulla corteccia o uno schizzo di pipì per marcare il territorio; niente di più.

Da loro aveva ricevuto molto: Conoscenza. Gli alberi una volta avevano una rete di comunicazione planetaria; ora non più, l’asfalto delle autostrade aveva separato le poche foreste ancora in piedi; ma gli esemplari più vecchi ricordavano tutto… Sapevano anche i loro fratelli caduti. Per quelli che erano diventati carta conoscevano ogni lettera scritta a mano o stampata; parole, frasi, aveva imparato grazie a loro a conoscere il suo nemico. Ora gli uomini scrivevano con la luce e non era così facile carpirne i segreti… Quando gli alberi servivano a costruire le case degli uomini, si conoscevano a vicenda, il legno ha memoria, anche se non ha più radici e linfa. Bisogna conoscere il nemico per combatterlo o, come nel suo caso, per difendersi…
E gli alberi questo lo sapevano naturalmente, lui li aiutava a tenere sotto controllo cervi e caprioli che mangiavano i giovani getti e non lasciavano ricrescere il bosco. Ne sarebbero serviti altri come lui, da solo non poteva fare molto, ma erano proprio gli alberi ad avergli raccontato che c’erano uomini che sceglievano la Conoscenza e non la discendenza; i seguaci del santo all’ombra del vecchio platano, lui era un po’ come loro, ma uccideva per vivere. Come loro però partecipava della vita della propria specie; nessuno era un’isola ma un continente, ogni morto lo diminuiva, fosse fratello o antagonista, sua vittima o vittima del nemico (cit.).
Querce, faggi, castagni, abeti, betulle e tutti gli altri erano degli ottimi alleati, anche se ora non riuscivano più ad avere novità da fuori valle; qualche uccello migratore a volte portava racconti dal deserto dell’Africa, ma per lo più raccontavano di guerra e devastazione o fumo nero che si levava dai deserti dei loro antichissimi avi. Sapevano che l’uomo non era cambiato molto, gli alberi dicevano che dalla notte dei tempi a muoverli era sempre l’egoismo, la voglia di prevalere sul proprio simile, di arricchirsi depredando la natura. I popoli vivevano nel passato e nel presente ma non pensavano al futuro, e i secoli li avevano fatti peggiorare…

Una volta però c’era chi dava bellezza al mondo, cercavano di arrivare alla perfezione della natura, dei reietti anche loro; il legno era diventato musica, violini, pianoforti, contrabbassi… Quella cosa che si sentiva le sere d’estate e gli faceva pensare una nostalgia… Ogni tanto chiedeva agli alberi di suonare e, con la complicità della pioggia, di un ruscello o delle nocciole che cadevano, le sinfonie accompagnavano il suo tempo.
Erano gli alberi ad avergli ricordato la sua storia ancestrale presso gli umani; la sua antica madre che aveva nutrito il re e il fratello, il poeta che l’aveva messa all’inferno come simbolo dell’avarizia e della cupidigia, il santo che era amico, la religione che lo aveva reso un demonio agli occhi dei poveracci affamati come lui facendo nefandezze in suo nome, le persecuzioni da parte degli uomini, la sua nascita e i primi tempi quando non vedeva ancora, preso amorevolmente tra le fauci di sua madre… Lui aveva memoria solo dei giochi con i fratelli, e il padre che non gli aveva lasciato un futuro nel branco. La madre era stata uccisa da un codardo boccone avvelenato.

Era fuggita via per non ammorbare la tana con il veleno che aveva in corpo. Insieme a lei erano morte due aquile e sei corvi dopo aver mangiato la sua carne, e non era finita… L’estate ventura sarebbero state le vacche al pascolo a subire il danno della stricnina, e poi l’uomo che l’aveva messa, magari, nel formaggio sulla sua tavola.

Un abete bianco gli aveva detto che lui era strano; aveva conosciuto altri della sua specie, ma nessuno era così curioso; gli aveva parlato di un gabbiano come lui. Singolare pensava; i gabbiani erano come lui, le cornacchie, i nibbi e i gufi reali a razziare la spazzatura e i ratti nelle discariche vicino alla grande città, un mattino che era di passaggio, non a cercare la Conoscenza…E poi come aveva fatto un abete bianco a incontrare un gabbiano?
Ma i tempi del girovagare erano lontani, anche se il concetto di passato, presente e futuro era una cosa da umani. Gli alberi gli avevano spiegato che il tempo non è altro che un’illusione, si vive il qui ed ora, il prima e il dopo sono solo un’invenzione, la loro vita terrena in confronto alla sua era secolare, tra gli altri ci sono alberi che sembrano giovani, ma in realtà si sono solo rifatti le radici partendo da un fusto morente, sono vecchi di millenni e non lo sa nessun’altro…

Il fulmine non faceva differenze tra loro e lui…
Certo, c’era una legge di causa effetto, come c’era una legge che faceva cadere i ricci di castagno e le foglie d’autunno, ma a lui non importava molto; era un predatore opportunista. Sapeva che se avesse colpito troppi domestici il padrone lo avrebbe perseguitato; era stato fortunato ad averne trovato uno così… Erano anni che gli faceva sparire uno o due vitelli a stagione; appena nati, neanche il tempo di alzarsi sulle zampe e via… Ma il padrone era un uomo particolare, amava le sue vacche che mungeva ancora a mano e conosceva per nome, amava la montagna, e sapeva che lui era un’incognita di cui tenere conto insieme a tante altre. Non usava il fucile e tantomeno il veleno, era una persona intelligente. Ma alla fine ci perdeva, nessuno gli pagava il danno.

Ce ne erano altri che invece avevano il fucile pronto; o i bocconi avvelenati… Erano gli stessi che davano fuoco alle montagne per avere l’erba buona; ma il segreto per avere l’erba buona lui lo sapeva, era salire ai monti con le vacche appena andava via la neve, non gli incendi che danno l’erba abortiva. E sia lui che il padrone avrebbero perso i vitelli…
Uno dei pastori era stato punito dalla sorte però, il fulmine gli aveva portato via venti pecore…
Ma lui, potendo scegliere, non aveva mai amato la loro carne; aveva sempre quell’odore di uomo che non sopportava. I vitelli e gli agnelli appena nati no, quelli erano profumati di latte; l’odore del sangue fresco spaventava le vacche che si tenevano lontane muggendo, ma appena nati, l’odore del sangue del parto le confondeva e lui poteva agire indisturbato.
In altre occasioni preferiva tenersi lontano spaventato da certi cani da pastore, arrivavano anche loro dall’Appennino ma quelli non erano facili da aggirare e i collari chiodati non lo lasciavano attaccare per primo.
Il legame con i cani non c’era. Semplicemente erano un’altra cosa rispetto a lui, antichi geni in comune, ma adesso non si comprendevano quasi mai. Raramente capitava che si conoscessero, anche in senso biblico; la specie si imbastardiva. Lui disdegnava: era orgoglioso della sua stirpe. Le volte che aveva portato via colpe per i danni fatti dai cani diventati selvatici non si contavano; non li apprezzava, avevano avuto bisogno di un padrone mentre lui il padrone lo detestava e quelli inselvatichiti avevano perso l’istinto di lasciar vivere gli animali che non servivano nel qui ed ora.

Avevano preso dagli uomini, non avevano stile. Uccidevano in branco mordendo le terga; lui lo aveva fatto con i fratelli alla sua prima cerva e ricordava ancora i morsi del padre per punirli. Bisogna essere fulminei ed attaccare al collo, la preda si spaventa il giusto e non prende il sapore amaro della paura.
Ne aveva fatto fuori uno, la sua colpa uccidere senza ritegno qualsiasi nidiata di coturnici o fagiani di monte; i padroni lo cercavano ancora adesso…

Si avvicinava l’ora della sua di morte. Non la temeva, come fai a temere una cosa che ti ha tenuto in vita per tanto. Gli alberi gli avevano spiegato che non temevano il fulmine: erano fatti della stessa cosa, il fulmine era onda e loro particelle, a volte il contrario; un discorso complesso che solo i monaci dell’est avevano capito meditando… Gli altri ci sarebbero arrivati prima o poi, con i loro calcoli, ma avrebbero provato a trasformare tutto in tecnologia e usarla per distruggere o colonizzare altri mondi visto che il loro era condannato.
Sarebbe stato infine anche lui un regalo per i corvi, suoi seguaci in tante occasioni.
Ma aveva fame, il sole stava calando e lui dalle rocce in cui si era fermato a controllare il pendio, si alzò; gli piaceva al tramonto accompagnare le ombre a coprire il mondo rendendosi ombra lui stesso.

 
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